TRIESTE – Quasi 45.000 lavoratori Usa di 36 porti della costa Est e sul Golfo del Messico fino al Texas meridionale sono in sciopero per chiedere aumenti di salario e protestare contro l’eccesso di automazione.
Le prime conseguenze per il continente americano riguardano senz’altro i prodotti freschi, ma anche – spiegano alcuni esperti Usa – il mercato delle automobili e probabilmente l’oil&gas.
Lunedì i funzionari del Dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti avevano incontrato le aziende interessate dalle vertenze sindacali, per continuare il dialogo in corso sugli impatti sulla catena di approvvigionamento e fornire un aggiornamento sugli sforzi dell’amministrazione per incoraggiare le parti a negoziare. Dall’inizio dell’estate, erano stati sentiti spedizionieri, vettori marittimi, porti, ferrovie e altri operatori della filiera, sul potenziale impatto di uno sciopero. “La nostra Amministrazione sostiene la contrattazione collettiva come il modo migliore per i lavoratori e i datori di lavoro di raggiungere un accordo equo, e incoraggiamo tutte le parti a venire al tavolo delle trattative e a negoziare in buona fede, in modo equo e rapido” si legge in una nota del Dipartimento statunitense.
Uno sciopero degno di questo nome, tra i portuali non si registrava dal 1977 e i costi per l’economia Usa potrebbero arrivare a 4,5 miliardi di dollari.
Il Governo Usa, peraltro, avrebbe avuto anche gli strumenti normativi per bloccare le astensioni dal lavoro, ma le eventuali accuse di comportamento antisindacale avrebbero danneggiato la sua immagine, proprio ad un mese dalla tornata elettorale per eleggere il nuovo presidente.
Per quanto riguarda le conseguenze economiche internazionali, posto che si verificheranno puntualmente, si discute sulla loro portata. In Italia, l’allarme è già stato lanciato da Spediporto, considerando che gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale dell’Italia fuori dall’Europa. Con lo sciopero, ogni settimana, si stima che a livello mondiale saranno circa 500mila i contenitori che non potranno sbarcare o raggiungere le destinazioni finali. Un danno gravissimo all’economia USA, ai suoi consumatori, ma anche agli esportatori, che certamente vedranno lievitare il costo dei noli già nelle prossime settimane.
Questa la tesi di Giampaolo Botta, Direttore generale Spediporto, per esprimere la sua preoccupazione per uno sciopero che arriva a quasi un anno dal primo attacco dei ribelli Houthi contro le navi in transito nel canale di Suez, e che rischia di mandare nuovamente in crisi il mercato mondiale dei container.
L’astensione dal lavoro, proclamata dall’International Longshoremen’s Association (ILA), sta paralizzando le attività di scali in grado di movimentare tra il 40 e il 50% dei volumi di tutti i porti statunitensi.
Anche i porti del Mediterraneo subiranno pesanti ripercussioni: sono a rischio, ogni settimana circa 71000 contenitori, in ambo le direzioni, sull’asse con la costa orientale degli Stati Uniti . Secondo Spediporto, la soluzione alternativa più gettonata, al momento, è quella relativa all’utilizzo dei porti della West Coast (o del Canada), ma gli operatori stanno puntando anche sul cargo aereo e su una più accurata gestione delle scorte per evitare interruzioni nella catena di approvvigionamento.