TRIESTE – Dopo la chiusura sulla Via della Seta, l’Italia deve dare certezze sul controllo e sul potenziamento della rete logistica, perché il dimezzamento delle forniture critiche cinesi può pesare per il 2% del Pil.
A lanciare l’allarme, chiedendo al governo una prova di grande pragmatismo e coerenza, è il presidente della Federazione italiana degli agenti marittimi, Alessandro Santi, in rappresentanza di una categoria che “si trova sulla linea del fronte dell’interscambio commerciale via mare” si legge in una nota.
«Corretta e tempestiva la decisione di fare uscire l’Italia dalla Via della Seta, ma ora è indispensabile un impegno pubblico e privato concentrato anche su questioni infrastrutturali e di analisi delle catene globali di approvvigionamento, focalizzando le risorse sugli interventi sostanziali e non perdendo di vista un quadro economico e commerciale – sostiene Santi – che vede comunque una percentuale altissima di imprese italiane dipendere per una quota rilevante da materiali strategici prodotti in Cina».
Secondo il presidente di Federagenti, da un recentissimo studio presentato dalla Banca d’Italia nella serie degli Occasional Paper di novembre 2023, la dipendenza dell’economia italiana dai materiali strategici di provenienza estera e in particolare dalla Cina emerge in maniera pesante. Muovendo dai bilanci delle aziende italiane, dai dati doganali e da un sondaggio condotto dalla Banca d’Italia sulle aziende italiane più esposte a questo problema, su 515 prodotti strategici che determinano livelli di dipendenza apprezzabili, il 15% delle aziende italiane (pari però al 25% del valore aggiunto della produzione) risulterebbero dipendenti da questi prodotti, In particolare, il 7% del valore aggiunto della manifattura risulta dipendente in maniera critica, con un basso livello di sostituibilità con fornitori di altri Paesi.
Tra le aziende in questa situazione, solo il 40% sta cercando soluzioni alternative. Nello studio si analizza l’impatto sull’economia italiana, identificando le aree geografiche più esposte (in ordine decrescente Marche, Toscana e la macro regione Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), i settori di produzione più vulnerabili (abbigliamento, pellame, tessile, elettronica, farmaceutica anche qui in ordine decrescente), ma soprattutto, attraverso l’utilizzo di modelli matematici, si evidenzia come un eventuale stop del 50% delle forniture cinesi di prodotti insostituibili possa essere stimabile nel 2% del Pil nazionale.
«Con i fenomeni di near o reshoring spesso fermi al palo e comunque deludenti rispetto alle previsioni formulate in periodo pandemico, oggi per un Paese come l’Italia – conclude Santi – è essenziale controllare e non subire la catena logistica, attuando azioni di politica economica, di potenziamento infrastrutturali anche portuali che siano coerenti con l’obiettivo di rendere robusto il sistema Italia».